
Davide Cassani, che ha voluto la bicicletta.
Davide Cassani l’ha voluta più che mai, quella bicicletta in sella alla quale ha vissuto esperienze indimenticabili. Sia da corridore, che da uomo poliedrico ed eclettico. Ce le racconta oggi in questa intervista.
Da ciclista professionista a commentatore Rai, da CT della nazionale italiana a organizzatore del Giro d’Italia Under23, da futuro creatore di una squadra World Tour ad autore di libri: un percorso eclettico in cui hai rivestito molti ruoli, ma sempre… in sella alla tua bicicletta. Secondo te esiste davvero il giusto equilibrio tra passione e carriera? Come l’hai trovato?
Per quanto mi riguarda, la passione mi ha dato la possibilità di coltivare e realizzare un sogno. Anzi, di realizzare più sogni. Quando ero bambino, il mio desiderio più grande era quello di diventare professionista. Quando sono divenuto professionista, il mio sogno era quello di diventare Commissario Tecnico. Adesso il mio sogno è quello di costruire una squadra importante in Italia, ma per il momento non c’è nulla di concreto. Sempre la passione, però, mi dà la possibilità di gioire per quello che sto facendo, per ottenere, per raggiungere quegli obiettivi che chiamiamo sogni.
Dall’essere Davide Cassani il ciclista professionista sei passato ad essere Davide Cassani CT: quali sono le differenze tra vivere lo sport da atleta e da responsabile tecnico? Cosa ti ha insegnato questo cambio di prospettiva?
Sono stato professionista per quindici anni; tra l’altro non sono stato un campione a tutti gli effetti, quindi ho vissuto un’esperienza veramente particolare. Di fatto, quando sei ciclista devi pensare soprattutto a te stesso, devi dare il meglio di te stesso per essere utile alla squadra. Quando sei Commissario Tecnico, invece, devi cercare di unire i ragazzi spingendo le loro ambizioni, per cercarle di finalizzarle al risultato della squadra. Da corridore pensi a te stesso, da Commissario Tecnico pensi per tutti!
Dopo il ritiro dalla carriera agonistica nel ’96, il tuo primo incarico professionale è stato in qualità di commentatore televisivo delle gare ciclistiche, arrivato dall’allora direttore di Rai Sport Marino Bartoletti. Con che grado di consapevolezza l’hai affrontato? Cosa cambieresti e cosa invece rifaresti?
Sono stati diciotto anni meravigliosi! Marino Bartoletti mi ha dato una grande possibilità: restare nel mondo del ciclismo e tra l’altro in una posizione privilegiata, quella del commentatore. Era qualcosa che sentivo già mio e che mi ha dato la possibilità di alzarmi felice tutte le mattine, pur sapendo di non essere più corridore.
Di errori ne ho fatti molti, però devo dire che avere al mio fianco dei grandi maestri è stato davvero bellissimo. Errori compresi.
Quali sono le dinamiche che ti è risultato più difficile comprendere e fare tue nel processo di riqualificazione professionale che hai vissuto? Cosa pensi avrebbe potuto aiutarti?
La mia carriera è stata un’esperienza incredibile dalla A alla Z. Sapevo cos’era una bicicletta, sapevo come ci si allenava, sapevo cosa bisognava fare per vincere anche se mi risultava difficile farlo. Per fortuna però sono andato a scuola fino ai 18 anni e ho raggiunto la maturità.
Sicuramente però se avessi studiato di più, se mi fossi preparato ancora meglio al mondo del lavoro (perché non ho mai considerato la bicicletta un lavoro) avrei trovato qualche difficoltà in meno nel riuscire a concretizzare quello che avevo in testa.
Professione e onestà intellettuale: nel tuo percorso ti sei trovato immerso in diversi scandali, come quello su Rasmussen, o quello sulle biciclette elettriche. Quanto eri preparato a gestire situazioni di questo tipo?
Ho sempre cercato di raccontare quello che sapevo e che vedevo, niente di più. Il discorso di Rasmussen è stato particolare perché io ho raccontato un aneddoto, senza sapere come sarebbe andata a finire. Non cercavo uno scoop, ho solo raccontato. Anzi, ho cercato di raccontare la professionalità e lo scrupolo che aveva Rasmussen nel proprio lavoro. Poi si è trasformato tutto in qualcosa di traumatico, è stata una brutta storia. Anche e soprattutto per me, perché l’ho vissuta abbastanza male.
Per le biciclette è successa la stessa cosa. Da quando ho saputo che c’era la possibilità di usare la bici a pedalata assistita ho semplicemente detto “Stiamo attenti, perché la bicicletta elettrica esiste“, quindi ho raccontato solo quello che sapevo.
Tra le varie attività che porti avanti, diverse coinvolgono anche i giovani. Di solito ti limiti ad un approccio didattico legato alla pratica sportiva, o cerchi di trasmettere anche altre conoscenze? (valori, nozioni di business…) Quali e come?
Ai ragazzi dico sempre: “Il futuro è nelle vostre mani“. Noi possiamo solo dare alcuni consigli, che ci ricordano quando eravamo ragazzini e avevamo gli stessi sogni. Ripeto spesso di non perdere tempo, di sfruttare il tempo libero che si ha. Sia il professionista che il dilettante si allenano tanto ma hanno anche molte ore libere per fare qualcosa di utile. Leggere i giornali, applicarsi, imparare cose nuove.
Risulta fondamentale non vivere col paraocchi ma avere una visuale ampia sul mondo che ci circonda. Spesso invece il professionista è portato a isolarsi e a pensare solo a sé stesso, al proprio fisico. Si è abituati a richiedere il massimo dal corpo e ci si concentra su quello. Invece che giocare alla Playstation e gozzovigliare, meglio leggere un quotidiano o un buon libro e rimanere aggiornati su ciò che ci circonda.
Lo dice il sottotitolo del tuo ultimo libro “Ho voluto la bicicletta”, noi te lo chiediamo: come il ciclismo ha insegnato a Davide Cassani a vivere?
Mi ha insegnato a lottare, mi ha fatto capire fin da quando avevo quindici anni che per ottenere un risultato bisogna impegnarsi, dedicare tempo, fare delle scelte. Si mette in conto la caduta, ma la caduta o l’arrivare staccati non sono incidenti o sconfitte, sono insegnamenti.
La prima cosa che fa un corridore quando cade è ripartire; la prima cosa che deve fare quando viene staccato è capire il motivo per cui si è fatto staccare e se quella può essere una lezione per cercare di migliorarsi. Il ciclismo mi ha insegnato questo, ed è anche per questo motivo che non mi sono mai sentito davvero in difficoltà anche quando la vita mi ha messo di fronte a momenti difficili.
A tuo parere, quali sono i rischi più grossi per un ex professionista? Situazioni ricorrenti, sensazioni, paure, magari che lo stesso Davide Cassani ha vissuto in prima persona?
Fortunatamente ho sempre vissuto dei passaggi non traumatici. Sì, sono caduto ed è per colpa di una caduta che non sono andato a lavorare in televisione, ma alla fine è stato un qualcosa di positivo. La cosa che intimorisce di più è che comunque la tua vita cambia radicalmente.
Sin da bambino avevi bisogno di correre, da ex professionista sei riuscito a raggiungere quell’obiettivo ma da lì in poi comincia un’altra vita. Non vieni più valutato per le tue doti fisiche ma per altre, subentra la paura di non essere all’altezza della situazione, di non essere pronto, per qualcuno anche di non riuscire a guadagnare quello che serve per vivere.
Quali sono, a tuo parere, le doti – i plus che un ex professionista in ambito sportivo ha per forza coltivato e che possono essere recuperate in un contesto professionale post-carriera?
Un ciclista viene da uno sport di fatica, individuale anche se la squadra è importante. Hai sempre e comunque dovuto lottare con te stesso per migliorare, quindi hai affinato tutte quelle attitudini che ti hanno permesso di raggiungere un obiettivo, quello di passare al professionismo.
Da professionista poi eventualmente vinci delle corse, militi in qualche squadra e quindi affini la voglia di arrivare, di migliorare, di non darsi mai per vinti. Personalmente ho impiegato sei anni per vincere la mia prima corsa dal professionista: sei anni sono tanti, ma ero convinto che con il lavoro, con l’applicazione, con allenamento e con una certa predisposizione mentale sarei riuscito a raggiungere l’obiettivo. Alla fine, ci sono riuscito. Vale nello sport, come nella vita.
Quali sono per te i campi su cui un ex atleta può puntare in ambito lavorativo e perché? (economia, marketing, sponsorship, consulenza, coaching…)
Ognuno ha delle capacità, delle caratteristiche diverse. Nel ciclismo ci sono il velocista, lo scalatore, il crono-man. C’è il capitano, c’è colui che è capace di vincere, c’è colui che è capace di far vincere. Un atleta deve capire, soprattutto negli ultimi anni della carriera, quello per cui è portato.
Di conseguenza già da professionista dovrebbe cercare di ampliare le proprie conoscenze in quella materia, perché alla fine il tempo per poterlo fare c’è.
Quali pensi che siano le attuali lacune sul panorama del mondo della formazione dedicata agli ex atleti?
Oggi si sta cercando di fare qualcosa proprio per accompagnare il professionista o l’ex professionista di tutti gli sport in una fase post-carriera soddisfacente. Secondo me bisognerebbe che anche in questo caso ci fosse più attenzione da parte del mondo professionistico nell’accompagnare e aiutare chi, da un anno all’altro, si trova comunque a dover definire la propria nuova vita.
Quale delle tre aree dell’Executive programme Athletes Post Career di Umana e Sport Business School costituisce a tuo parere un vero valore aggiunto e può fare la differenza?
Dipende da quello che si vuole fare, sono tutti e tre ambiti molto importanti che possono dare la possibilità di fare qualcosa di bello. Come dicevo è fondamentale capire le proprie inclinazioni, capire quali sono le proprie caratteristiche.
Quando si è in bici, lo si capisce subito. Forse nel mondo lavorativo e nella vita di tutti i giorni è un po’ più difficile. Il professionista però è di solito dotato di quella sensibilità che gli fa capire subito come può migliorarsi, quali sono capacità e punti deboli di un profilo come il suo.
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