
Valentina Marchei e l’antifragilità dell’atleta
Una chiacchierata, la storia di una vita e di mille vite: Valentina Marchei, ex pattinatrice artistica, si racconta a Sports Business School.
Lo sport di fatto fa parte del tuo DNA: tuo padre Marco Marchei, maratoneta, ha rappresentato l’Italia sia alle Olimpiadi di Mosca nel 1980 che alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, ed è stato lui a portarti a lezione di ritmica con Giulia Staccioli.
Tuo padre è stato una guida importante per te? Ti ha mai parlato del suo ritiro? Come pensi abbia vissuto quella fase della sua vita? Ti è stato di insegnamento per orientare le tue scelte formative?
Papà mi ha sempre educata allo sport come scuola di vita, ma non mi ha mai caricata di aspettative. A lui la maratona ha dato modo di aprire i propri confini uscendo dalla classica mentalità di paese ed entrando in una prospettiva internazionale.
Per potersi permettere di correre però ha dovuto formarsi e lavorare: è riuscito a studiare, si allenava ovunque. Mi ha fatto capire che non bisogna per forza fare solo una cosa, si possono fare tante cose insieme e peraltro fatte bene: la sua è stata una dual career e si è preparato per la sua seconda vita.
Era già sposato quando ha partecipato alla seconda Olimpiade e poi ha deciso di smettere; un anno prima già scriveva e si era guadagnato un ruolo all’interno di un’azienda. Sì, ha conciliato benissimo lavoro e sport di alto livello, per poi costruirsi la sua carriera da direttore di giornale.
È stato una figura fondamentale per me, soprattutto nei momenti di difficoltà mi ha insegnato a non mollare mai con la consapevolezza che a volte, anche se non molli e continui a lavorare duro, il risultato non lo raggiungi comunque. Consapevole di poter fallire, però, sai di averci provato fino in fondo.
Non mi ha spinta all’obiettivo come risultato, mi ha spinta all’obiettivo come crescita personale, come maturità. È sempre stato il materasso su cui cadere e rimbalzare, non ha mai trovato soluzioni per me, ma mi prendeva per mano e mi diceva “le troviamo insieme”. È stato il mio primo e grande fan, ma il fatto che riuscisse a rimanere distaccato dalla mia carriera mi ha permesso di prendere qualsiasi tipo di decisione senza dovere attendere sue conferme o sentirmi vincolata.
Credo che questo mi abbia dato molta forza anche quando, a 28 anni, ho deciso di cambiare disciplina e gareggiare in coppia. Ho mantenuto quel fuoco negli occhi che lui mi ha donato e non avrebbe mai spento, anzi, che ha sempre alimentato nonostante fosse una scelta folle per qualsiasi altra persona. Lui me l’ha detto, ma aggiungendo: “Chi sono io per bloccare il tuo sogno?”.
Durante la tua carriera ti sei trovata a cambiare più volte allenatore: cosa provavi nel mutare spesso i tuoi punti di riferimento più forti? Come giudichi oggi questa scelta?
A mio avviso i punti di riferimento li cambi quando non ti possono più dare quello di cui tu hai bisogno. Sembra molto egoista, ma in realtà è esattamente così. Personalmente ho avuto tre allenatori differenti, fondamentali, i quali corrispondono a tre fasi della mia carriera importanti.
La prima è stata quella della crescita, dal ’93 al 2008: ho avuto quella stessa allenatrice che aveva conosciuto mio padre alle Olimpiadi di Los Angeles.
Allo sport ero stata avviata ad appena 6 anni da Giulia Staccioli, già atleta top della ginnastica ritmica, conosciuta da mio padre alle Olimpiadi di Los Angeles, che teneva un corso al Forum di Assago, non lontano da casa mia, e che a un certo punto ha dovuto lasciare il gruppo di noi bimbe a metà del secondo anno per un’importante opportunità professionale all’estero.
È stato così che ho iniziato con il ghiaccio, solo che le ragazze della mia età già pattinavano da tempo e io arrancavo… La nuova allenatrice, che mi ha seguita dal 1993 al 2008, è stata quella della crescita. Mi faceva fare degli allenamenti supplementari nel weekend, diceva che sennò rallentavo il gruppo. Poi sono migliorata, gareggiavo sia con le junior che con le senior, ma il rapporto con quella mia allenatrice di pattinaggio è sempre rimasto quello di una ragazzina con la sua insegnante.
Ed ecco arrivare il primo grande cambiamento della mia vita, della mia carriera: andare dall’altra parte del mondo a inseguire il mio sogno, in una scuola di pattinaggio che sarebbe stata diversa culturalmente da quella in cui ero cresciuta. Ero abituata ad avere una seconda mamma sul ghiaccio, invece mi sono ritrovata a lavorare da sola, a dover sfruttare ogni occasione, ad allenarmi con atleti molto più forti di me.
Riuscivo a mordere i polpacci ai più forti, ho alzato l’asticella, ho viaggiato. Dall’America, alla Lettonia, alla Russia, crescevo con un allenatore russo che a volte ci faceva lavorare anche di notte: mi ha insegnato moltissima disciplina, mi ha dato responsabilità. Visto che ci allenavamo tante ore da soli servivano delle regole interne.
Questa vita da “nomade” mi portava davvero ovunque, ma era diventato stancante: cambiavamo paese ogni mese e non ce la facevo più. Avevo però paura di chiamarlo e dirgli che sentivo bisogno di costanza, ma quando ci ho parlato ha compreso. Ha esplicitato che il suo obiettivo era rendermi la versione più forte dell’atleta che potevo diventare, ha capito subito.
Mi sono sentita libera di volare e lui mi ha lasciata volare via. Con il suo supporto mi sono messa alla ricerca di qualcosa di nuovo, passando tra l’altro per un brutto infortunio, e sono finita a Detroit. Dopo tre anni ho partecipato alla prima Olimpiade, ho trovato il mio spazio, i nuovi coach mi hanno resa un’atleta matura, consapevole e costante. Da lì è iniziato il mio periodo d’oro, che da singola si è concluso nel 2014 a Sochi, dove pensavo di smettere. In una settimana mi sono innamorata della disciplina di coppia e ho stravolto la mia vita.
Tirando le somme, è importante identificare delle guide ma è anche fondamentale rimanere sicuri della propria identità, della propria evoluzione, attorniandoci di persone compatibili con questo percorso.
Dall’essere 5 volte campionessa italiana in singolo, ti sei poi orientata verso una prosecuzione di carriera gareggiando in coppia e infine ti sei cimentata anche nel pattinaggio di figura a squadre. Senti molto la differenza tra il lavoro individuale e quello di squadra? Come pensi si possa rispecchiare nel mondo del lavoro, ti senti più propensa ad un’occupazione che preveda un lavoro in team oppure no?
Quando gareggi nel singolo sei abituata a leccarti le ferite da sola. Nel lavoro di squadra invece impari a lasciar andare, a condividere le responsabilità, ma anche a separarle. A volte non serve 100, ma 80. Ad esempio, se devi creare una leva con il partner e dai troppo, non funziona. Lui ha nelle mani il tuo sogno e tu il suo, quindi diventa una questione di rispetto e responsabilità condivisa. Bisogna andare nella stessa direzione con fiducia ma anche con un certo peso addosso, che a volte è molto difficile da gestire.
Se potessi tornare indietro, però, passerei alla coppia molto prima, o meglio, non cambierei nulla perché sennò non avrei vissuto le Olimpiadi… Però vorrei vivere questa esperienza della coppia più a lungo. È un qualcosa che ti cambia proprio come persona, anche un semplice inchino cambia: in due si sa cosa c’è dietro, la fatica che c’è stata, la condivisione vera.
Si crea una bolla molto forte con qualcuno che non è fidanzato, né migliore amico, né fratello; un rapporto che ti rimane addosso come una seconda pelle, che è difficile ricostruire in un contesto lavorativo.
Quali sono, a tuo parere, le doti – i plus che un ex professionista in ambito sportivo ha per forza coltivato e che possono essere recuperate in un contesto professionale post-carriera?
Penso che tutte le skills che hai imparato intanto devi saperle riconoscere, perché non è così immediato. Nel mondo del lavoro è importantissimo. Noi atleti sviluppiamo caratteristiche, attitudini, competenze che nel percorso “regolare” di un ragazzo non intercorrono. Parliamo ad esempio di gestione dello stress ad altissimo livello, individuazione rapidissima di soluzioni a problemi imprevisti, costanza.
In più, possiamo citare la realtà di spogliatoio. Si tratta di un contesto che non è tra i più idilliaci, soprattutto nello sport individuale. C’è tantissima competizione, per questo si impara a gestire emotivamente i rapporti. Lo spogliatoio offre anche grandi opportunità, come quella di essere un esempio: è vero che ci sono le ragazze con più esperienza di te ma ci sono anche le più giovani, e lì l’influenza che hai è vera, si può cominciare a trasmettere degli insegnamenti.
Lo sport è disciplina, è libertà ma anche rispetto, è leadership. Nel mondo dello sport il leader non è necessariamente “il capo”, come spesso viene indentificato nel mondo del lavoro, ma è la persona con la capacità di tenere il gruppo unito in ogni situazione.
Ecco, questa è una delle cose che mi sono ripromessa di fare nel mondo del lavoro: unire. Da ex atleta è mia responsabilità.
Aggiungerei anche quella che a me piace chiamare “antifragilità”, quella particolare forma di resilienza che l’atleta impara a forza di prendere un sacco di sberle. È un po’ come chiudere l’anima di Valentina Marchei in una scatola e, invece che scriverci fuori “FRAGILE”, scriverci “ANTIFRAGILE”: vai, scuotimi pure che io non mi rompo, non posso più farmi male.
Un campione è abituato a cadere molte volte e a rialzarsi altrettante. Questo mi ha aiutato non poco con il lavoro in ufficio: quando c’è un problema, anche apparentemente insormontabile, sei portato, perché abituato, a non abbatterti a priori ma a mantenere un approccio positivo e ad impegnarti e cercare di trovare delle soluzioni.
Piede, caviglia, ginocchio: nel 2008 e poi nel 2011 hai avuto diversi infortuni: con che mindset sei riuscita a superarli arrivando a 34 anni ancora in perfetta forma e con un ottimo equilibrio mentale?
In realtà il primo infortunio grosso è arrivato nel 2002, ma mi ha dato ancora più spinta per andare avanti. Nel 2008 ero una Valentina Marchei molto poco preparata, non avevo ancora trovato la mia identità. Ho fatto moltissima fatica, non mi ero qualificata per le Olimpiadi di Torino, in vista di Vancouver stavo male e avevo addirittura preso peso.
Nel 2010 non mi qualifico di nuovo. A quel punto mio padre mi ha detto “Valentina, se continui ad avere come solo e unico obiettivo l’Olimpiade non ci arriverai. Se invece vai oltre, con una visione più ampia, affronterai meglio anche gli incidenti di percorso!”.
Nel 2011, infatti, mi sono nuovamente fatta male ma ho cambiato allenatore, sono maturata, ho capito che nella generazione di un talento come Carolina Kostner, non dovevo per forza aderire agli standard. Io sono la classica stacanovista che non è nata con abilità innate, ma sono la ragazza che deve essere sbattuta fuori dalla pista perché non smette mai di allenarsi. Lavoravo, mi piaceva sudare, avevo fame di imparare.
A quel punto ho capito di dover allacciare i pattini al cuore, non ai piedi. Mi sono trasferita a Detroit sapendo che avrei avuto altri incidenti di percorso, ma consapevole di cosa volevo essere su quel ghiaccio. Questa determinazione era molto più forte del banale infortunio, non sentivo nemmeno il dolore.
A fine carriera c’è stato il tour con “Holiday on Ice”, poi l’Accademia Olimpica Internazionale in Grecia, infine la ripresa del percorso Universitario in Scienze Motorie. Come queste esperienze ti hanno aiutata ad affrontare il momento del ritiro?
Quando sono partita per “Holiday on Ice” non ero, in verità, pronta al ritiro, ma il mio partner aveva deciso, al termine di una carriera lunga e ricca di soddisfazioni, di “chiudere” con l’attività agonistica e sarebbe stato egoista da parte mia chiedergli di ripensarci. Ho imparato a non puntare il dito, a condividere, ad ascoltare. Avevo ancora tantissima fame, ho cercato un sostituto ma non è andata, ero già “vecchia” per il mio sport. Quando è arrivata questa proposta l’ho colta al volo. Volevo chiudere seguendo i miei valori, ma davanti ad un pubblico, da protagonista. Faccio la valigia, parto.
All’improvviso mi trovo a rivedere la mia disciplina nei confronti dello sport. Ero abituata ad allenarmi anche 9 ore al giorno, qui mezz’ora ma poi tre spettacoli, sei ore in pista. Mi presentavo ogni giorno agli allenamenti, a volte ero sola su 40 performer. Dopo il primo mese ho iniziato a lasciarmi andare, il livello era comunque altissimo ma ho capito di poter vivere il pattinaggio in un modo diverso da quello di sempre. Era divertente, un po’ più semplice.
Sono arrivata così a 33 anni e mi sono detta “è ora di fare qualcosa di diverso”.
Mi sono iscritta all’Accademia Olimpica, e solo due settimane dopo Holiday On Ice mi sono trovata in una full immersion di studio. Non lo facevo da tempo, avevo ormai congelato gli studi. Mi sono immersa nel mondo olimpico di cui ero già innamorata, ho i 5 cerchi nel sangue. Ho capito di voler lavorare con gli atleti, volevo trasmettere ai giovani il mio credo. Poi, dopo aver monitorato le opportunità di lavoro concrete, da Scienze Motorie sono passata a Organizzazioni e amministrazioni sportive.
La Federazione Italiana Sport del Ghiaccio mi ha dato l’opportunità di crescere insieme al team eventi e l’esperienza mi ha appassionato molto. In queste fasi ho sempre avuto al mio fianco il mio preparatore mentale, che nella mia carriera mi ha aiutata nelle tecniche di comunicazione, fondamentali per rapportarmi con il mio partner sul ghiaccio, e che poi mi ha guidata nel periodo di transizione, una volta chiusa la carriera.
Mi sono focalizzata sull’aspetto umano, aiutandomi a tirare fuori e applicare nella vita quotidiana quelle competenze che avevo acquisito, ma che non sapevo come utilizzare.
Da questo percorso è nata anche una collaborazione con Marco Montemagno, ovvero un corso sulle sue piattaforme che parla di mentalità olimpica.
Credo che la chiave sia sempre avere qualcuno che ti guidi per poter esplorare te stesso. Anche qui, il lavoro di squadra è imprescindibile. Devi poter vedere l’altro lato della medaglia, un nuovo punto di vista, avere un continuo confronto.

Com’è oggi il tuo lavoro d’ufficio?
Ormai sono due anni che ho la fortuna di lavorare per il Comitato Organizzatore delle Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano Cortina 2026.
Mi sento privilegiata a poter contribuire con la mia esperienza ma soprattutto con la visione di chi ha vissuto i Giochi “dall’altra parte”. Sono sempre stata, e sono ancora consapevole, di dover continuare a convincere, proprio come avveniva quando pattinavo.
Sono quella che mantiene i rapporti con gli atleti, con i talent; m’impegno a fare comunicazione empatica di certo aiutata dal fatto che me la cavo molto bene a padroneggiare la terminologia tecnica corretta, anche in altri ambiti dello sport. Inevitabilmente ho a che fare con moltissime visioni differenti e spesso devo saper “galleggiare”, perché certe decisioni spettano a me sola, senza poter contare su una squadra ma, quando è necessario, con i colleghi ci si dà sempre una mano. Siamo tutti ragazzi giovani e molto appassionati, non facciamo remote working, dunque lavoriamo sempre spalla a spalla in un continuo brainstorming.
Non tutti hanno vissuto il mondo sportivo in prima persona come è capitato a me, abituata ad avere intorno gente con il sacro fuoco negli occhi, una magia che ho sempre ritenuto peculiare dello sport. Ma non per questo chi ho intorno è meno motivato o meno importante ai fini del lavoro che Milano Cortina 2026 porta avanti quotidianamente: ognuno mette in campo la sua parte positiva migliore e la mia è quella di rimanere fedele a me stessa portando l’energia “olimpica” che mi caratterizza.
Quale delle tre aree dell’Executive programme Athletes Post Career di Umana e Sport Business School costituisce a tuo parere un vero valore aggiunto e può fare la differenza?
Per il percorso che ho fatto io è molto importante la seconda, “Fare Impresa nello sport”, perché è un mondo più tecnico per me inesplorato. La prima parte, “La persona oltre l’Atleta”, io l’ho già vissuta ed è stato complesso affrontarla! Sei perso, esci dalla tua comfort zone, non sai più chi sei, pensi di essere in grado di fare solo quello che hai fatto per tanti anni. In realtà sei molto di più.
Per un atleta che ha appena smesso, che si ritrova seduto su una sedia a dire “E mo’, che faccio?” il fatto di scoprirsi è necessario. È come costruire una casa: se non metti le basi non potrai mai arrivare al tetto e magari costruire un’altra casa di fianco!
Noi ex atleti siamo molto più che le medaglie che abbiamo al collo, ma abbiamo bisogno di conoscerci, di rivederci sotto una nuova prospettiva. Dall’altra parte troveremo sempre qualcuno che ci dirà “Tanto sei un atleta, sai fare solo quello”, ma non si tratta solo di tecnica. Ci aggiungiamo le capacità, le attitudini che solo lo sport ci sa insegnare.
Adesso ci sono molte più opportunità di seguire un percorso che ti prepara al “dopo” durante la tua carriera sportiva. Ho avuto la fortuna di seguire i primi step del programma sulla “Dual Career” della Commissione Atleti del CONI (quando ne ero un membro), contribuendo con la mia visione in piccola parte a quello che poi poco tempo fa si è concretizzato, dando un grande aiuto agli atleti per potersi preparare alla loro seconda vita, in anticipo. Purtroppo io quell’opportunità non l’ho avuta durante la mia carriera. Mi sono ritrovata a proseguire il mio percorso universitario una volta appesi i pattini al chiodo.
Non ho trovato alcun tappeto rosso ad attendermi fuori e chi , come me, non ha avuto la possibilità di gestire, entrambi i percorsi contemporaneamente, penso che l’Athletes Post Career Executive Program sia un’opportunità unica per allenare le proprie competenze per aiutarti a porti di fronte alla vita a 360 gradi. Una volta che scopri i tuoi superpoteri, puoi raggiungere qualsiasi obiettivo!

Come quei fiocchi di neve che si appoggiano, e ovunque si appoggiano si adattano benissimo a qualsiasi forma.
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