
L’importanza di ascoltarsi: intervista a Rossano Galtarossa
Quest’anno ne hai compiuti 50: una carriera incredibile, un palmarès pazzesco, una serie innumerevole di esperienze in tutto il mondo. Ma raccontaci: chi è oggi Rossano Galtarossa?
Allora, Rossano Galtarossa oggi non è un allenatore di canottaggio, anche se ho acquisito negli anni il brevetto per poter essere autonomo e gestire una società. È una delle domande che mi hanno fatto appena ho finito la mia carriera di atleta, ma ho preferito mettermi alla prova in contesti differenti. In questo momento sono Direttore di sede alla Canottieri Padova, un circolo storico ultracentenario della mia città presso il quale mi sono allenato per molti anni. Ci sono arrivato dopo la prima Olimpiade, quella di Barcellona ’92. Si tratta di un circolo che ha 1300 soci, 4-500 corsisti che frequentano, insomma, una realtà sportiva buona ma impegnativa, aperta 7 giorni su 7. Pensavo che il ruolo che ho mi lasciasse più tempo libero, ma ho scoperto che così non è. Dopo la crisi economica del 2008-2009 abbiamo sofferto molto, poi nel 2010 siamo stati sommersi dall’alluvione e da lì abbiamo subito un tracollo importante, scendendo sotto le ottocento unità. Abbiamo così studiato delle promo per incentivare la fascia media a rientrare al circolo e pare abbia funzionato. Parallelamente svolgo attività di formazione aziendale e propongo giornate di team building; da due anni, infine, ho una piccola docenza presso la Facoltà di Scienze Motorie dell’Università degli studi di Padova: insegno in un corso di “Diritto e organizzazione”.
Hai vinto tutto come singolo, ma hai sempre gareggiato anche in gruppo. Senti molto la differenza tra il lavoro individuale e quello di squadra? Come pensi si possa rispecchiare nel mondo del lavoro?
Parto dalla fine! Mi è sempre piaciuto ricavarmi dei momenti in cui mi prendo degli impegni o dei lavori anche individuali. In alcuni contesti mi fa piacere potermi concentrare su me stesso. Lo sport però mi ha insegnato che anche il maratoneta che vince la prova più lunga dell’atletica – quindi dopo più di due ore da solo -, che deve contare solo sulla sua concentrazione, sulla sua preparazione, sulla sua determinazione e quant’altro ottiene quella performance con tanto del suo però solo se dietro c’è un grosso lavoro di squadra. Il canottaggio è una disciplina che prevede varie specialità a partire dal singolo, dove si gareggia da soli, fino ad arrivare all’otto dove si è in nove all’interno della stessa imbarcazione.
Per la maggior parte degli anni in cui sono stato in nazionale io ho gareggiato in quattro di coppia per la precisione, abbiamo affrontato tante competizioni con questo equipaggio. Chiaro che lì c’è molta competizione, però anche questo serve per formarsi ad alto livello. Il risultato conquistato a Pechino, ad esempio, è stato frutto del lavoro mio e dei miei tre compagni, ma anche degli altri atleti che hanno tentato di prendersi un posto a discapito nostro. A me quindi piacciono entrambi, sia l’approccio singolo che quello di team. Da un po’ di anni mi gratifica soprattutto vedere il miglioramento del mio gruppo, dei “compagni di barca”, persone con cui collaboro fianco a fianco o che devono collaborare sotto le mie indicazioni, che migliorano il loro rendimento grazie a considerazioni, valutazioni, suggerimenti, informazioni. Mi piace responsabilizzare e far capire che le cose si possono fare sempre meglio.
Ti senti più propenso ad un’occupazione che preveda un lavoro in team oppure rimani un “battitore libero” nell’animo?
Lo sport mi ha insegnato anche a condividere i risultati: se sei in una posizione più apicale rispetto ad altri sarebbe facile prendersi i meriti ma…troppo facile così. Anche quando facevo le gare in singolo, mi piaceva sentirmi parte di una squadra. Un bravo “capo”, però, è anche quello che sa dire “bravi” al termine di una manifestazione. Sembra banale però non è da tutti, e significa moltissimo. In questo, come in tutti gli altri settori, la comunicazione è davvero fondamentale.
Attualmente ricopri la posizione di Direttore di sede della Canottieri Padova, ma ti sei prestato anche ad altri incarichi, come quello di presidente della giuria tecnica del premio letterario Memo Geremia. A tuo parere, quanto è importante che un ex campione riesca ad uscire dalla sua zona di comfort, avvicinandosi anche ad ambiti alternativi a quello dello sport?
È fondamentale. Molti tra i miei colleghi che facevano parte dei gruppi sportivi di militari hanno chiuso la propria carriera sportiva e si sono accontentati di fare il piantone in caserma. Pensieri zero. Rispetto le scelte di ognuno, ma dico: hai passato anni in un contesto in cui puntavi a obiettivi molto grossi e stimolanti. Di punto in bianco prendi la tua asticella e la sbatti per terra? L’atleta di alto livello a volte vive in una sorta di bolla, poi finisce la parentesi sportiva e non si sa cosa fare. Io trovo più stimolante mettermi a disposizione: attualmente sono Vicepresidente del CONI Veneto perché cerchi di supportare lo sport del tuo territorio!
Da ormai otto anni faccio anche parte della giuria di un premio letterario sportivo, sono anche qui membro di una squadra che si confronta. Bisognerebbe trovare ogni giorno qualcosa di stimolante da fare: a ormai cinquant’anni ho ormai la convinzione ferma che lo sport sia davvero una scuola di vita e possa insegnarci moltissimo.
Spesso ti occupi anche di coaching e team building in azienda, sia come testimonial sportivo che come trainer: come hai “imparato” ad interfacciarti con l’universo delle aziende? Ci sono degli accorgimenti che avresti voluto imparare prima, magari grazie ad un percorso di formazione strutturato?
Il fatto di avvicinarmi al mondo della formazione aziendale per me è stato casuale. È iniziato tutto con degli inviti, banalmente per esibire il risultato, la medaglia olimpica e strappare un applauso. La mia fortuna è stata quella di incrociare un professionista del settore che poi è divenuto anche un amico, e che mi ha fatto capire che la mia quotidianità non era una cosa così ordinaria e banale. Il mio atteggiamento verso la sfida e il miglioramento lo ha colpito e mi ha suggerito come trasmetterlo. Collaboro con più aziende, non ho mai dato esclusiva a una sola agenzia, mi confronto con mondi che non hanno nulla a che fare con quello sportivo “atletico”. Cerco di fornire contributi che possano risultare utili, non ho la supponenza di dire che insegno a fare bene. L’esperienza olimpica comunque tocca corde emozionali che tendono a lasciare fissati nella memoria dei concetti: bisogna avere la capacità di tradurli.
Strutturare percorsi di formazione dedicata anche agli atleti può essere un’opportunità assolutamente interessante. Credo che i giovani d’oggi siano sottoposti a molti più stimoli esterni, potenzialmente possono captare molti più messaggi, molte opportunità. In parallelo però sopraggiunge anche la difficoltà di scegliere, di scremare le informazioni, quindi succede che si privino della possibilità di mettersi alla prova, di fare davvero qualcosa per sé stessi. Timore del confronto, scarsa convinzione dei propri mezzi, poca autostima. Noi avevamo meno, ma paradossalmente era tutto più semplice.
Quali sono le emozioni più connotative che a tuo parere caratterizzano la carriera di uno sportivo professionista? Secondo te è possibile ritrovarle in un percorso professionale post-carriera? Come?
Spesso nello sport le emozioni vengono abbinate ai risultati. Ci sono però dei passaggi personali che non sono abbinati alla conquista di un trofeo, non sono da esibire, a volte nemmeno da condividere. Magari non hanno alcun valore dal punto di vista sportivo, ma sono fondamentali per l’individuo. Bisognerebbe imparare ad apprezzarli di più, sono step di crescita, anche se sono meno “visibili” di altri. Un esempio, la rivalsa di un ragazzino cresciuto troppo in fretta e tenuto sempre in panchina.
Non sono d’accordo con la famosa frase “Il secondo è il primo dei perdenti” di Enzo Ferrari, io ho sempre gioito. Purtroppo però la propria percezione dipende sempre anche da quella degli altri, bisogna ricordarsi ogni attimo che nessuno ci regala niente. Andiamo a prenderci il risultato, ascoltiamoci, godiamocelo, poi guardiamo gli altri perché tanto ci sarà sempre chi fa o farà meglio di noi. L’analisi, lo studio, la comparazione va fatta non con invidia e gelosia, ma con la voglia di crescere. Nello sport, come in qualsiasi altro contesto.
A tuo parere, quali sono i rischi più grossi per un ex professionista? Situazioni ricorrenti, sensazioni, paure, che anche un Rossano Galtarossa a fine carriera ha vissuto in prima persona?
Beh, principalmente amareggiarsi del fatto che le emozioni fortissime che hai che hai vissuto è difficile ritrovarle in un mondo lavorativo più ordinario. Non è semplice accettare di avere cambiato contesto, né riportare l’approccio che si ha con lo sport nella fase post-carriera. Inoltre si rischia di sentirsi esclusi da un ambiente che prima si viveva da protagonisti. Io stesso supporto lo sport locale certo perché mi piace ed è la mia vita, ma anche per sentirmi ancora in un certo qual modo “dentro”. A volte le sfide possono sembrare piccole, poco stimolanti, per questo bisogna prestare attenzione alla soddisfazione che ci arriva quando riusciamo a risolvere un problema, o quando coinvolgiamo qualcun altro in modo efficace.
Credo però che sia umano, pensiamo a quando uno arriva al traguardo ed è talmente pieno di adrenalina che non sente la fatica: c’è emozione, c’è esaltazione, c’è pressione, c’è la consapevolezza di giocarsi anni di preparazione in pochi minuti. Una magia che difficilmente si ritrova in altro che non sia lo sport, ma è giusto che sia così. Ed è bellissimo!
Quali pensi che siano le attuali lacune sul panorama del mondo della formazione dedicata agli ex atleti?
Difficile per me giudicare non avendo toccato con mano, non ne ho mai usufruito. Sono sempre stato autodidatta, è un’opportunità che al tempo non ho colto. Di fatto però, avendo gareggiato fino a quarant’anni, per me è stato un passaggio molto più fluido. Oggi per fortuna il tema è molto più sentito, la mentalità si è aperta, c’è più attenzione al percorso accademico degli sportivi professionisti. Spero che pian piano tutti gli attori dell’universo sportivo si uniformino a questa tendenza e offrano un supporto valido e concreto.
Rossano, quali sono le dinamiche che ti è risultato più difficile comprendere e fare tue nel processo di riqualificazione professionale che hai vissuto? Cosa pensi avrebbe potuto aiutarti?
Per la maggior parte dei ruoli che ho ricoperto non ho avuto nessun passaggio di consegne. Mi ci sono ritrovato, ho imparato sul campo. Sicuramente mi sarebbero state utili conoscenze in ambito business, marketing e comunicazione. Lo sai anche, cos’ho trovato difficile? Cambiare prospettiva. Da atleta non mi sono mai limitato a pianificare la mia giornata, o la settimana. Ragionavo come minimo a tre anni, a lunghissimo termine. Nel mondo del lavoro in parte è diverso, ci sono anche orizzonti diversi, ma il bello è proprio questo. Imparare, anche a cinquant’anni e oltre, a guardare te stesso e la tua vita con occhi nuovi.
Quale delle tre aree dell’Executive programme Athletes Post Career di Umana e Sport Business School costituisce a tuo parere un vero valore aggiunto e può fare la differenza?
Ho studiato nel dettaglio il programma, sono una persona curiosa, e mi viene da dire che siano tutte importanti in egual misura, una non ha senso senza le altre. Per chi si trova più nel dubbio, forse il primo punto, il Bilancio di Competenze, è il più utile a capire verso che tipo di percorso proiettarsi.
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