
#EleganceofPower: Sara Cardin si racconta a Sport Business School
Sara Cardin, classe 1987, 1° Caporal Maggiore dell’Esercito Italiano, è una Campionessa di Karate (specialità kumite) con la C maiuscola, da sempre follemente innamorata di uno sport che poggia le sue fondamenta su insegnamenti antichissimi e sacri, di cui è la perfetta incarnazione. Si racconta oggi a Sport Business School.
«Ogni combattimento inizia e finisce con il saluto, un segno di rispetto. Meglio di ogni lezione teorica di educazione civica». Hai sempre pensato questo del karate, ritieni quindi che sia un tipo di sport propedeutico alle dinamiche del mondo del lavoro? In che termini?
Nel karate il rispetto è fondamentale: dell’avversario, di sé stessi, dell’ambiente in cui si combatte. In più, sempre grazie al karate nel tempo ho imparato che l’aggressività agonistica non è violenza, ed è un sentimento fortemente positivo.
Questi due aspetti, il rispetto e la competitività, si possono rapportare anche al mondo del lavoro: un imprenditore che vuole eccellere sicuramente entrerà in conflitto con i propri competitor aziendali, e relativamente a queste dinamiche credo che anche il rispetto entri in gioco a pieno titolo. Rispetto per gli antagonisti, per la nostra etica valoriale di persone o aziende.
Al tempo stesso, cercare di prevalere, di arrivare a quel quid in più che ci porta a fare la differenza è fisiologico in un contesto professionale; essere un grande campione però, nello sport e nella vita, significa correre mantenendo un legame forte con le proprie radici e la propria etica, senza snaturarsi, senza scorrettezze o scorciatoie.

Quali sono gli insegnamenti più significativi che, da professionista e lavoratrice oggi, riconosci al karate?
In primis, il metodo. Avere una progettualità, una programmazione nel medio lungo termine per un agonista è necessario: non si può andare in palestra e allenarsi a sentimento, deve essere tutto schedulato da un team di persone che lavorano in sinergia. Si parte da un obiettivo primario per poi suddividere il percorso per arrivarci in piccole tappe, verso le quali si cammina con pazienza ogni giorno. Anche i momenti di down vengono messi in conto, perché la curva della risalita è in realtà un continuo sali-scendi, per andare avanti a volte bisogna saper fermarsi, o fare anche un passo indietro. Resilienza, dunque, e accettazione delle sconfitte, degli infortuni. Beh, non dimentichiamoci infine la capacità di sognare, e la voglia di realizzare le proprie aspirazioni con passione e dedizione.
Una delle figure per te fondamentali è stata quella del nonno Danilo, il maestro Miyagi di una te come una piccola Karate Kid: un vero uomo d’altri tempi, che ti ha trasmesso il valore del sacrificio e della fatica, la determinazione, la costante propensione al miglioramento. E in ambito lavorativo? Quanto ritieni sia importante avere una guida? Tu l’hai avuta? La vorresti?
Per quanto riguarda l’ambito professionale sono solo agli esordi, come sapete sto lavorando con il Presidente del CONI Giovanni Malagò, quindi posso far riferimento a lui: un grandissimo modello, che sa gestire un milione di cose al secondo rimanendo sempre estremamente pragmatico e concreto.
Grazie a questa prima esperienza ho realizzato che, nel lavoro come nello sport, aiuta tantissimo la capacità di osservazione: osservare come vivono la propria quotidianità e come crescono le figure con più esperienza di noi è una lezione preziosissima.
“Un campione può cadere. Ma quello che fa la differenza è la capacità di guardarsi dentro, mettere in ordine in pezzi, e ricominciare. Perché non importa come colpisci, ma come sai resistere ai colpi e come incassi. E se, quando finisci al tappeto, hai la forza di rialzarti”. A un passo dalle Olimpiadi, prima gli infortuni, poi la pandemia, e ancora l’esperienza di volontariato in Africa. Come hai vissuto la fisiologica incertezza che accompagna la vita del campione?
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Cosa ti avrebbe reso più facile accettare questi imprevisti?
Se lo sport in generale è imprevedibile, il karate lo è ancora di più: abbiamo solo tre minuti, un calcio significa tre o quattro decimi di secondo e se non pari hai solo poche frazioni di secondo per recuperare. È tutto estremamente situazionale e costringe ad interfacciarsi continuamente con l’incertezza.
Di momenti difficili ne ho vissuti diversi, certo, ho dovuto imparare a gestire le emozioni e lo stress, quel “cambio delle carte in tavola” che inizialmente mi snervava. Ci ho lavorato ogni giorno per anni, è una forma mentis che ci si costruisce nel tempo perché nessuno nasce coraggioso, con l’indole alla reazione; per me anche nel lavoro è così, non abbattersi continuando ad avere la visione finale di quello che è il tuo gioco e il tuo punto d’arrivo diventa basilare anche all’interno di un percorso complicato e sfidante come quello di una nuova professione.
Oggi i social network hanno un ruolo fondamentale nella vita di campioni ed ex campioni. Tu ti racconti spesso sui vari canali social, tanto da creare anche un hashtag: #eleganceofpower, perché credi che si possa essere eleganti nella potenza e nella forza, forti ed eleganti allo stesso modo. Quanto ritieni che questo strumento sia utile nella vita professionale? E nella divulgazione di valori?
L’hashtag che per me è diventato come una firma è stato ricercato per comunicare un’idea di comportamento nella vita, nel lavoro e nello sport: un’idea di potenza, di energia che al tempo stesso però non diventi una forza bruta priva di rispetto e valori, ma un voler eccellere mantenendo sempre una nostra etica, una nostra eleganza nei modi e nei gesti. L’hashtag è stato pensato molto in riferimento alle donne sportive che praticano un’arte marziale come il karate, ma si può rivolgere benissimo anche alle donne che diventano imprenditrici e fanno business. Penso che sia passato il momento di pensare alla donna come debole, poco attiva e sempre composta: siamo vigorose, energiche, potenti e in più sappiamo essere eleganti, raffinate, astute nelle nostre tattiche di competizione, sia essa sportiva o lavorativa.
#eleganceofpower rappresenta un’esortazione, possiamo combattere senza perdere la nostra femminilità, possiamo esprimerci nel mondo del lavoro senza andare a scopiazzare quelle che sono le caratteristiche maschili, mettendo in risalto quelle che sono le peculiarità di noi donne.

A tuo parere, quali sono i rischi più grossi per un ex professionista? Situazioni ricorrenti, sensazioni, paure, magari che hai anche vissuto in prima persona?
Dipende molto da atleta ad atleta, ognuno ha il suo tallone d’Achille, quelle debolezze tra le quali ci si può insinuare. Ad esempio, a pochi piace perdere, ancora meno sanno plasmare al meglio il proprio rapporto con le sconfitte, quelle centinaia di gare che non entreranno mai in palmarès sono un tasto dolentissimo. Questo però può portarci a diventare le cosiddette meteore, raggiungendo in breve tempo l’eccellenza per poi crollare – succede anche alle aziende, no?
È necessario saper cambiare, evolversi, e per farlo serve l’umiltà di guardare, ogni volta che si è raggiunto un traguardo, cosa in effetti è stato fatto bene e cosa no. Essere un campione significa anche mettersi continuamente in discussione.
Quali sono, a tuo parere, le doti – i plus che un ex professionista in ambito sportivo ha per forza coltivato e che possono essere recuperate in un contesto professionale post-carriera?
Un esempio: ti alleni tutti i giorni per ore, arrivi ad avere dolori ovunque, sei pronto, dopo quattro anni di preparazione ti trovi in un palazzetto con decine di migliaia di persone che tifano e urlano sugli spalti e tu sei lì sotto da solo, con lo scudetto sul petto, e in tre minuti ti stai giocando il sogno della tua vita.
Direi senz’altro la gestione dello stress 😉
Quali pensi che siano le attuali lacune sul panorama del mondo della formazione dedicata agli ex atleti?
Sul rapporto tra scuola e sport a mio avviso c’è ancora molto da fare. Io ho frequentato il Liceo Scientifico e non è stato semplice, ero costretta a fare tantissime assenze perché ero in giro per il mondo a portare in alto il nome dell’Italia, avevo anche una media alta eppure questo non era ben visto. Sicuramente partirei da ben prima, dalle scuole elementari, dove secondo me si fa troppo poco sport; passerei poi alle scuole superiori, dove chi fa sport a volte è mal visto e penalizzato rispetto ad altri. In merito al sistema universitario il sistema delle frequenze obbligatorie nelle statali non facilita, specie se una persona è sempre in viaggio.
Penso però che corsi come quello che state promuovendo – e che frequenterò – siano azzeccati perché riconoscono e valorizzano quello che un atleta ha imparato nel suo percorso di vita aggiungendoci tutta una serie di informazioni e conoscenze concrete che gli mancano per affrontare il mondo del lavoro.
In una recente intervista, viste le vicissitudini degli ultimi anni, hai dichiarato “Il mio futuro è vivere con gioia nel presente”. Quindi, Sara, non ti chiediamo del tuo futuro… Ma del tuo presente. Ora lavori al CONI, nella Segreteria del Presidente Giovanni Malagò: come stai vivendo questa esperienza? In cosa ti senti più completa e cosa, invece, ti manca? Quali sono le dinamiche che ti è risultato più difficile comprendere e fare tue nel processo di riqualificazione professionale che hai vissuto? Cosa pensi avrebbe potuto aiutarti?
Si tratta di un’opportunità immensa, una grande dimostrazione di fiducia da parte del Presidente. Sicuramente mi aiuta essere una persona corretta, che ha sempre lavorato molto, con un’etica solida in un mondo, lo sport di alto livello, spesso duro e subdolo; cerco di mantenere l’umiltà dell’atleta, che quando si approccia con qualcosa di nuovo deve considerarsi a zero e tenere occhi e orecchie spalancati per imparare. Io sono lì proprio per questo, per crescere. Di difficoltà se ne presentano ogni giorno, le vivo sulla pelle e proprio per darmi delle opportunità in più ho scelto di iniziare il percorso di formazione dedicato al post-carriera di Sport Business School: voglio capire bene il mondo del business marketing, le dinamiche del mondo aziendale, e non vedo l’ora di iniziare!
Quale delle tre aree dell’Executive programme Athletes Post Career di Umana e Sport Business School costituisce a tuo parere un vero valore aggiunto e può fare la differenza?
Se ho scelto di frequentare il corso è perché credo davvero in questo progetto, e ritengo egualmente utili e ben strutturate tutte le parti del programma. Mi permetto una nota aggiuntiva però, ovvero che mi è piaciuto tantissimo il proporsi di partire davvero dalla persona.
Un ex atleta che ha fatto sport per tutta la prima parte della sua vita e che si ritrova letteralmente catapultato nel mondo del lavoro rischia di non capirci assolutamente niente: va supportata la “metamorfosi” da atleta a persona che si interfaccia con il mondo in maniera totalmente diversa, senza perdere quello che è stato prima, ma arricchendo il suo presente e il suo futuro di nuove skills da campione.