
Pallavolo + passione = Eatparty! Una chiacchierata con Consuelo Mangifesta
È uno dei “cuori pulsanti” della nostra pallavolo.
Vent’anni di vittorie e grandi emozioni.
Se diciamo passione, gli occhi che ci vengono in mente sono quelli di Consuelo Mangifesta, grande pallavolista oggi Responsabile relazioni esterne, eventi e comunicazione per la Lega Serie A Pallavolo Femminile.
La sua è una storia di coraggio, di esperienza fatta sul campo; con lei parliamo oggi di carriera, di esperienze e di formazione, quella che avrebbe desiderato per avventurarsi con maggiore consapevolezza nel suo percorso post-professionismo.
Durante la tua carriera hai potuto contare sulla guida di allenatori esperti quali Giorgio Barbieri o Massimo Barbolini: quanto è importante, a tuo parere, potersi appoggiare a riferimenti importanti nel proprio percorso professionale e di vita?
Ora ne hai menzionati due, però ho avuto la fortuna di giocare avendo sempre a fianco dei grandi tecnici: ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa. Mi rendo perfettamente conto che spesso un atleta sente l’esigenza indispensabile di avere un’empatia con il proprio tecnico, che a volte diventa un vero e proprio mentore. È quindi fondamentale fidarsi del proprio tecnico!
Per quanto mi riguarda i riferimenti li ho avuti, però ho sempre cercato di prenderli da ambienti esterni: l’ho fatto con consapevolezza, perché volevo che a giudicarmi e a consigliarmi fossero persone super partes, non coinvolte emotivamente per un motivo o per un altro. Durante tutti gli anni della mia carriera, dunque, sono stata accompagnata da figure fondamentali anche se non necessariamente da tecnici.

Ruoli dirigenziali, nonché da opinionista e commentatrice tecnica, poi Responsabile relazioni esterne, eventi e comunicazione per la Lega Serie A Pallavolo Femminile, perfino una breve militanza in politica: di questo tuo percorso così variegato, quali tappe ripercorreresti e dove invece non ti concentreresti più e perché?
Tante tappe, ma per me la più importante è sempre quella durata 23 anni, ovvero quella da atleta, che ripercorrerei esattamente come l’ho percorsa durante il mio fantastico viaggio in quanto probabilmente rimarrà l’unica ad avermi dato la possibilità di gratificare il mio ego esattamente come volevo.
Detto questo, ci sono sicuramente delle fasi della mia carriera altrettanto importanti tra cui quella attuale, all’interno della Lega Serie A Pallavolo Femminile. Una posizione veramente fondamentale che mi ha portata a conoscere un mondo totalmente nuovo, verso il quale mi sono approcciata con grande umiltà proprio per il fatto che probabilmente quando sono arrivata non avevo tutti gli strumenti per entrare e imporre la mia figura. Ho avuto pazienza, ho guardato con attenzione quelli che facevano meglio di me e piano piano ho cercato di portarmi a casa un know-how che oggi utilizzo quotidianamente quando svolgo la mia funzione.
Quello che probabilmente non rifarei, ma senza nessuna critica e polemica, è l’esperienza della politica, che effettivamente è stata molto breve per un motivo molto preciso: ci ho messo poco a rendermi conto che all’interno del mondo politico i compromessi da accettare sono un po’ troppi e gli obiettivi raramente sono davvero comuni. Per me, che ho fatto gioco di squadra per quasi tutta la mia vita, accettare queste dinamiche è stato subito molto complicato, quindi prima di fare dei danni mi sono ritirata in bellezza e ho continuato a fare quello per il quale probabilmente avevo più una vocazione.
Che tipo di competenze hai acquisito grazie alla tua esperienza come giocatrice all’estero? Come ti sono state utili?
Intanto mi ha dato l’opportunità di comprendere le difficoltà che avevo visto in molte compagne giunte in Italia, quella di doversi adattare, ambientare e inserire in un gruppo totalmente nuovo con usi e costumi completamente diversi. Fortunatamente io non sono andata troppo lontano, sono stata nelle Canarie, dove gli usi e costumi bene o male sono molto simili ai nostri… quindi è stato tutto estremamente semplice. Ci sono stati dei piccoli ostacoli che ho dovuto superare, l’essere in un posto dove per la prima volta non mi sentivo una veterana ma l’ultima arrivata, quindi accettare delle regole che erano già stabilite da altri e non determinate da me o da chi mi stava intorno.
La cosa più importante era farsi accettare e conoscere velocemente, in maniera tale da poter entrare nelle dinamiche di una squadra che da anni si allenava insieme. Fortunatamente ho un carattere che mi permette probabilmente di accelerare un po’ i tempi, quindi non è stato così difficile!
Grazie ai tuoi canali social condividi spesso contenuti che riguardano la pallavolo: si comprende bene il modo appassionato e totalizzante in cui hai vissuto la tua carriera da sportiva. Come vivi il tuo rapporto con i social e come li relazioni alla tua vita professionale? Ti sei mai formata su questo tema?
Ricoprendo all’interno della Lega un ruolo che spazia molto, e che quindi abbraccia anche il ramo della comunicazione, è ovvio che con i social ho a che fare quotidianamente. Mi sono chiesta molto spesso se il mio impegno sui social dovesse essere più congruo o se invece avrei dovuto prendere le distanze; cerco di farne comunque un uso consapevole.
Ho deciso di creare e pubblicare contenuti che comunque abbracciano la mia sfera personale, quindi il mondo della pallavolo nello specifico, dello sport e qualche altro aspetto della mia vita privata. Raramente condivido, perché quando condividi comunque stai divulgando qualcosa di non tuo, non una tua creazione, ma quando tutti commentano devi comunque argomentare e non essendo “farina del tuo sacco” si rischia di andare in contrasto.
Ad ogni modo, i social mi hanno insegnato una cosa fondamentale, ossia che sono portata molto più per i rapporti reali piuttosto che per quelli virtuali, che sono più brava a parlare che a scrivere, quindi mi limito ad un uso moderato. Ho comunque la possibilità di tenermi al passo perché ho un gruppo di lavoro specializzato all’interno della Lega, che lavora h24 sui social; per il resto, viva il face-to-face!
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Le più belle opportunità in campo professionale, per te, sono arrivate grazie a contatti e rapporti coltivati nel tempo, come quello con il giornalista Jacopo Volpi, storica voce RAI, che ti ha più volte intervistata nel corso della carriera e ti ha proposto di affiancare il telecronista Francesco Pancani per il commento tecnico al Mondiale in Giappone. Il successo è arrivato in modo naturale, grazie al tuo linguaggio brillante e coinvolgente e per i tuoi commenti schietti e diretti.
Pensi che un percorso formativo come quello di Sports Business School avrebbe comunque implementato le tue possibilità? Come?
Quando ho cominciato con il ruolo di opinionista il mio impiego era limitato a quello che erano le competizioni, di fatto non quotidiane. Probabilmente nella mia testa c’era la volontà di rimanere nel mondo dello sport e quella è stata la prima opportunità che mi è stata data da Jacopo Volpi. Non sapevo se quello sarebbe stato il mio lavoro per la vita, infatti poi non lo è stato, mi sono dovuta organizzare e ho cominciato un secondo percorso… ma dal nulla.
Se avessi avuto l’opportunità di frequentare un Corso come questo sicuramente mi sarei approcciata al mondo del lavoro con delle conoscenze molto più solide, invece ho cominciato praticamente da zero impiegando ovviamente più tempo rispetto a chi ha fatto un percorso formativo e si è approcciato al mondo del lavoro con delle basi.
Quali sono le emozioni più connotative che a tuo parere caratterizzano la carriera di uno sportivo professionista? Secondo te è possibile ritrovarle in un percorso professionale post-carriera? Come?
È molto difficile paragonare le sensazioni provate in una carriera sportiva e quelle di una carriera lavorativa, nonostante essa si svolga quotidianamente nell’ambito dello sport: per me sono completamente differenti. Quello che ogni tanto cerco di fare è pensare a quanto sia bello vincere per riproporre nella condizione che sto vivendo in questo momento quella sorta di benessere. Fortunatamente, occupandomi anche di organizzazione di eventi, continuo a lavorare in squadra e posso cercare di trasmettere quanto sia bello portare a casa un risultato nel migliore dei modi e quindi vincere: un benessere diverso, una soddisfazione da prendersi, perfetta seppur diversa.
A tuo parere, quali sono i rischi più grossi per un ex professionista? Situazioni ricorrenti, sensazioni, paure, magari che hai anche vissuto in prima persona?
Nel corso della mia carriera sportiva anch’io ho commesso qualche piccolo errore: pensavo che la vita di un atleta non finisse mai… Inevitabilmente invece arriva il giorno in cui finisce, e se non hai compiuto un percorso per prepararti ti trovi totalmente spiazzato.
La cosa più importante è cercare di acquisire durante il percorso la consapevolezza che prima o poi il tuo corpo non risponderà più perfettamente come quando avevi vent’anni, anche se a 32 anni sei ancora molto giovane. Forse per questo si cade nell’errore, perché a 32 anni uno si sente nel pieno delle proprie forze ma a livello di performance si cominciano ad avere già delle piccole flessioni.
Questo è quello che è capitato a me, svegliarmi una mattina e accorgermi che la Consuelo atleta di quel giorno non era l’atleta di vent’anni prima. Da questo poi scaturiscono una serie di considerazioni che però io ho fatto solo post carriera, invece andrebbero affrontate per tempo.
Quali sono, a tuo parere, le doti – i plus che un ex professionista in ambito sportivo ha per forza coltivato e che possono essere recuperate in un contesto professionale post-carriera?
Personalmente posso parlare del “mio” sport, quello che mi ha formata nella vita da adolescente, poi da donna matura e fino ad oggi. Lo sport di squadra sicuramente ti insegna immediatamente la condivisione di qualsiasi tipo di situazione, dei successi, ma anche della responsabilità che bisogna prendersi quando si affronta un insuccesso. Ogni cosa va gestita in gruppo.
Poi c’è la leadership, che mediamente all’interno di una squadra viene riconosciuta ad una sola persona: è un qualcosa da riconoscere, negli altri o in sé stessi, quindi farsi seguire dal proprio gruppo, risolvere i problemi con una mente veloce e prendersi carico delle decisioni più complicate.
Infine, in squadra si acquisisce una sicurezza determinante, che deriva da anni di allenamento e serve anche nel lavoro, qualunque esso sia.
Quali pensi che siano le attuali lacune sul panorama del mondo della formazione dedicata agli ex atleti?
Sono giunta all’inizio del mio viaggio lavorativo con un bagaglio pari a zero, sono stata catapultata in ginocchiere e pantaloncini in un mondo che benché fosse legato all’universo dello sport non mi apparteneva ancora. Esserci arrivata senza nozioni chiaramente mi ha creato qualche difficoltà, e quando poi ho sentito l’esigenza di approcciarmi a dei corsi purtroppo mi sono resa conto di entrare in aule popolate da persone che avevano dedicato una vita allo studio, che stavano già affrontando dei Master e avevano nozioni ben più avanzate rispetto alle mie.
Non si può pensare che un atleta, solo perché ha praticato professionalmente uno sport, sappia affrontare un impiego senza incepparsi mai, anche se nel settore. Il fatto che attualmente esistano dei corsi specifici sicuramente può aiutare e invogliare, dare ad un ex atleta l’input giusto in più per buttarsi più serenamente a capofitto in una nuova avventura.
Quali sono le dinamiche che ti è risultato più difficile comprendere e fare tue nel processo di riqualificazione professionale che hai vissuto? Cosa pensi avrebbe potuto aiutarti?
In 14 anni di lavoro in Lega mi si sono presentati davanti veramente tanti problemi che ho sempre cercato di risolvere, a volte in autonomia, a volte con l’aiuto del gruppo di lavoro con il quale vivo la mia quotidianità.
La principale difficoltà che un campione potrebbe avere a mio parere potrebbe essere la gestione dell’impulsività: un atleta tendenzialmente è spinto ad essere impulsivo, ad agire di pancia e non di testa, mentre invece quando sei a lavoro devi agire in primis razionalmente.
Questo per me è stato lo scoglio più difficile da superare e probabilmente è stato lo stesso anche per tanti altri atleti che hanno fatto della loro determinazione la loro spinta. Nella vita io sono una donna molto passionale ma mi rendo conto che in certi frangenti la passione va messa da parte e va recuperata poi in altri momenti.
Quale delle tre aree dell’Executive programme Athletes Post Career di Umana e Sports Business School costituisce a tuo parere un vero valore aggiunto e può fare la differenza?
Premesso che reputo tutte e tre le aree molto molto importanti per una formazione di un ex atleta, sicuramente partirei dal bilancio delle competenze, utilissimo a identificare chiaramente le peculiarità da poter applicare nel mondo del lavoro. Subito dopo posiziono l’organizzazione aziendale perché per quanto mi riguarda quello che è stato difficile è stato comprendere le dinamiche dell’organizzazione aziendale nel mondo dello sport.
Onestamente non nascondo che a distanza di tanti anni ancora fatico: non si finisce mai di imparare, di aggiornarsi, di scoprire situazioni nuove, soprattutto nel mondo dello sport che è in continua evoluzione sia a livello organizzativo che strutturale.
Credo che questo sia uno dei Corsi più completi per un atleta che chiude la sua carriera e che decide comunque di voler continuare a prestare il suo servizio nello spettacolare mondo dello sport.
