
Il futuro come progetto: intervista ad Antonio Pavanello, Direttore Generale di Benetton Rugby
Simbolo della recente storia biancoverde e storico capitano per ben 6 delle 10 stagioni trascorse da Leone, ha indossato 224 volte la maglia della Benetton Rugby divenendo così il decimo giocatore con più presenze di sempre. Nel suo palmares vanta 4 Scudetti, 1 Coppa Italia e 2 Supercoppe italiane.
Dal 2016 Direttore Sportivo, nel 2021 è stato nominato Direttore Generale.
Chiacchieriamo oggi con Antonio Pavanello, che ci racconta la sua esperienza post-carriera sportiva e l’approccio con una professione di tipo dirigenziale.
Qual è il destino tipico di un giocatore di rugby a fine carriera? Di conseguenza, quand’è che Antonio Pavanello ha pensato “quando finirò di giocare cosa voglio fare”?
Bene o male ci ho sempre pensato, è un’idea che mi è a lungo frullata per la testa. Nei primi anni di prima squadra a Rovigo mi sono laureato in architettura a Venezia; poi, avendo preso anche il ruolo di capitano della squadra, mi trovavo spesso a gestire situazioni complesse con i compagni e con il club. Da qui la scelta di iscrivermi ad un Master in Diritto e management dello sport a Roma, che mi ha traghettato verso la carriera da dirigente.
Molti colleghi, non solo nell’ambito del rugby, auspicano di poter rimanere nel settore, così affascinante e coinvolgente: gli sbocchi più naturali sono verso i ruoli di allenatore, preparatore oppure fisioterapista, anche perché le conoscenze che si assimilano in anni di attività sportiva di alto livello sicuramente tornano utili. Cosa diversa invece è il ruolo dirigenziale, in quanto servono competenze specifiche ben più approfondite da applicare. Ma a me le cose “facili” non sono mai piaciute!
Una laurea in architettura a Venezia, con una tesi sul recupero edilizio: il concetto di “recupero”, di riqualificazione è quindi un qualcosa che da tempo attrae la tua attenzione. Cosa ti ha insegnato l’opportunità di studiarlo in campo architettonico? Hai ritrovato degli spunti utili da “riutilizzare” per la gestione del tuo futuro nel campo sportivo?
Sì, assolutamente: ricordo i primi giorni in cui ero seduto in questo ufficio, dietro la scrivania qui al mio fianco. Ero ancora disorientato, ma uno dei gesti istintivi che ho fatto fin da subito è stato quello di tirare fuori un foglio bianco, una penna e disegnare una casa, un edificio fatto da una base – che doveva essere forte – e dei pilastri grazie a cui lo volevo innalzare.
La mia filosofia è la mia progettazione, ovviamente il tetto erano i miei obiettivi e mi sono inizialmente ritrovato a gestire il mio lavoro come se fossi un architetto. Quando nel 2015 ho smesso di giocare, peraltro, la squadra non viveva un buon momento: eravamo arrivati ultimi nel nostro campionato e il presidente Marino mi chiese di ipotizzare una nuova strada per riassestare la nostra realtà. Mi sono ritrovato quindi ad applicare il concetto di recupero edilizio… nel mondo dello sport.
Il rugby, come tutti gli sport di squadra, crea gruppo sia dentro che fuori dal campo: è stato difficile per te ritrovare questo aspetto nel lavoro d’ufficio?
Domanda interessante. Per un ex atleta trovarsi ad avere a che fare con colleghi senza un trascorso sportivo di squadra non è semplice, in quanto vengono meno quelle dinamiche di collaborazione, scambio, interfaccia continua che uno sportivo interiorizza e poi veicola in modo innato. D’altro canto, però, coloro che hanno un background più strutturato possono trasmettere una professionalità di altissimo livello. L’ideale? Un connubio delle due dimensioni!
Trovi sia più difficile fare il giocatore o il manager?
Indubbiamente fare il manager: quando sei giocatore lavori in un team di atleti, compagni di squadra che condividono con te sacrifici, piaceri e doveri, una crescita e dei valori, ma alla fine si riconduce tutto a un evento ludico che va in scena il sabato o la domenica, pur davanti a tantissimi tifosi.
Cosa cambia quando si diventa manager?
Vengono a mancare il dinamismo della vita sportiva, il sacrificio della sveglia la mattina presto, l’allenamento sfiancante; le pressioni psicologiche aumentano, e non sono più ripartite a livello di squadra, ma si concentrano sul singolo, su di te e nessun altro.

Quanto è importante il tuo trascorso da giocatore nelle scelte che ora ti trovi ad affrontare come dirigente sportivo di Benetton rugby?
Il trascorso da giocatore è chiaramente una parte importante: un vissuto plasmato da anni e anni di sport. Prima, a livello giovanile, si riconduce tutto al divertimento; poi diviene un’attività più professionale, pressione e di coinvolgimenti hanno un carattere “sportivo” ma pur sempre pressioni sono, e sopportarle e gestirle è una bella palestra di vita!
Quali sono, a tuo parere, le doti – i plus che un ex professionista in ambito sportivo ha per forza coltivato e che possono essere recuperate in un contesto professionale post-carriera?
A ruota libera: spirito di squadra, propensione alla competizione, gestione della pressione, sacrificio. Tutti aspetti che fanno indiscutibilmente parte del bagaglio di un ex atleta.
Lo spirito di sacrificio che prova uno sportivo in campo o in allenamento è particolare, l’allenatore ti porta al limite delle tue possibilità e hai bisogno di grande forza mentale. Sicuramente allo stesso modo nel lavoro sarai una persona che non demorde, che non si lascia abbattere dalle difficoltà.
Lo stesso vale per la gestione della pressione, che per un atleta di alto profilo arriva dallo staff, dai compagni, dai tifosi, dai giornali, e che va affrontata giorno dopo giorno.
C’è anche la questione gruppo, vivere all’interno di una squadra composta da tantissimi atleti ti porta ad essere conscio che ti devi relazionare con gli altri, non sei un individuo solitario e le tue azioni hanno delle conseguenze: allo stesso modo a lavoro sei in una struttura complessa, fatta di diversi individui, ed è necessario barcamenarsi tra soluzioni e compromessi.
Ancora, l’atleta vive per la competizione, si prepara quotidianamente per essa, vive di adrenalina: quella voglia di emergere, di arrivare che può permanere nel mondo professionale, con obiettivi ben delineati e la voglia di raggiungerli… Meglio se prima degli altri!
A tuo parere, quali sono i rischi più grossi per un ex professionista? Situazioni ricorrenti, sensazioni, paure, magari che hai anche vissuto in prima persona?
Sicuramente la paura più grande è quella dell’incertezza del futuro, quando non è ben chiaro quello che può capitare in un post carriera; tesi avvalorata da giornali e siti web, che spesso riportano notizie in cui la protagonista è la depressione dell’ex atleta, la quale determina non solo chiusura nei confronti delle persone, ma anche dei contesti lavorativi.
La soluzione ideale è arrivare preparati: studiare, frequentare corsi anche durante la propria carriera sportiva aiuta, e molti club che ne sono a conoscenza offrono soluzioni agevolate ai propri atleti.
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Marzio Innocenti quest’estate ti ha definito “uno dei riferimenti del rugby italiano, e una figura centrale in un’ottica di ricambio e svecchiamento della dirigenza del movimento”. Qual è stato il tuo mindset per riuscire a rimanere nel mondo del rugby, ma cambiando completamente approccio e posizione?
Di fatto, quello che mi sono ritrovato a fare in un primo periodo è stato mettere a fuoco quello che avevo in testa e che avevo vissuto da giocatore, tutte quelle mancanze viste dal campo che da ex giocatore mi ero ritrovato a vivere negli ultimi due anni. Con queste premesse ho cercato di “svecchiare” determinati concetti, stili e approcci ormai radicati nel tempo, per riproporli in un’ottica più moderna. Grazie al club e alla nazionale ho avuto la fortuna di poter vedere quello che accadeva all’estero, quelle che erano la filosofia e la direzione che il nostro sforzo stava seguendo, e mi sono ritrovato ad applicarlo nel nostro mondo – ovviamente parametrando quelle che erano le possibilità di allora. Un modello che metteva il giocatore al centro e, attorno a lui, persone e strutture che lo andavano a plasmare.
Nel mondo sportivo, un aiuto da parte di chi ha vissuto lo sport ad alti livelli – e specialmente il nostro sport – è arrivato solo negli ultimi dieci o quindici anni, da quando il rugby ha avuto un’accelerazione, attraverso tanti cambi che sono si sono susseguiti nelle strutture dei campionati nazionali. Questo ha dato la possibilità a tante persone di testare sul campo determinate situazioni e di riuscire poi a portare in ambito dirigenziale le proprie peculiarità.
Quali pensi che siano le attuali lacune sul panorama del mondo della formazione dedicata agli ex atleti?
Ritengo che un tema molto poco tenuto in considerazione sia quello del poter conciliare la vita dell’atleta con quella di studente: una struttura capace di trovare un punto d’incontro è senz’altro vincente. La Sports Business School, tra i suoi obiettivi, si pone proprio quello di stare vicino all’atleta, di coinvolgerlo in attività parallele e di garantire una crescita formativa.
Altro aspetto degno di nota: un ex atleta spesso si ritrova a seguire dei percorsi di studi standardizzati, viene messo nella stessa aula di chi non ha mai vissuto determinate esperienze, e questo a mio avviso non ne valorizza le qualità. Sarebbe importante riuscire invece a dedicare a figure come le nostre un corso di studi pensato ad hoc, come l’Executive Programme!
Quale delle tre aree dell’Executive programme Athletes Post Career di Umana e Sport Business School costituisce a tuo parere un vero valore aggiunto e può fare la differenza?
Ritengo molto interessante, affascinante e utile il bilancio di competenze: spesso un ex atleta si ritrova a pensare di essere bravo in determinate aree, aspetto che viene messo poi in discussione attraverso questionari o indagini. Questo bilancio invece rappresenta la possibilità per gli atleti di capire bene il proprio di dentro e di immaginarsi all’interno di un mondo lavorativo reale.
Perché consiglieresti l’Executive Programme Post Career ad ex atleti o atleti a fine carriera?
Innanzitutto ci sono professionisti esperti che possono fornire il loro supporto in una fase di analisi preliminare e indirizzare verso le aree più efficaci per lo specifico post-carriera di ognuno; inoltre vengono forniti il metodo concreto e le skills giuste per poter affrontare il passaggio tra mondo sportivo e mondo lavorativo. Gli atleti devono investire in questo tipo di attività e investire su loro stessi per non trovarsi impreparati nel passaggio dal campo all’ufficio.
Ci tengo a chiudere specificando una cosa: il mondo sportivo è un mondo affascinante, in cui ciascun atleta professionista vive con orgoglio, ma che può chiudere le sue porte da un momento all’altro. Purtroppo nella vita di un atleta accade davvero di tutto ed è importante arrivare preparati a quel fatidico giorno in cui ci si ritira, allo scopo di evitare momenti di sconforto dai quali è difficile rialzarsi.
Consiglio vivamente questo percorso formativo affinché ogni ragazzo, un domani, si possa trovare realizzato anche nel mondo lavorativo oltre che in quello sportivo.
